
Anteprima della puntata:
Il lavoro è un viaggio, non una destinazione fissa. Ci sono momenti in cui il lavoro che un tempo ci appassionava inizia a starci stretto. È normale attraversare crisi, momenti di insoddisfazione o sentire che l’ambiente lavorativo non è più in linea con i nostri valori. Ma come capire se è solo una fase o se è davvero il momento di cambiare?
10 CONCETTI EMERSI DALLA PUNTATA
- Non esiste un momento perfetto per cambiare lavoro: ogni scelta comporta rischi e incognite.
- Spesso si rimanda il cambiamento per paura di perdere sicurezze anche minime.
- Ci sono segnali interni (noia, rabbia, apatia) che vanno ascoltati con attenzione.
- Il momento giusto è spesso quello in cui si è pronti a tollerare il vuoto del passaggio.
- Il cambiamento non è sempre radicale: può partire da una piccola modifica nella direzione giusta.
- Molti aspettano che sia “il contesto” a spingerli via, perdendo potere decisionale.
- Cambiare non è fallire, ma scegliere di abitare meglio il proprio tempo lavorativo.
- È utile prepararsi al cambiamento con reti, visione e piani realistici.
- Il desiderio di cambiare è legittimo anche se non c’è ancora una meta chiara.
- Restare troppo a lungo in un lavoro che non ci corrisponde ha un costo profondo.
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GLI SPUNTI NATI DA QUESTA LIVE
1. Non esiste “il momento giusto” per cambiare lavoro, ma segnali da ascoltare
Ogni percorso ha momenti diversi, ma ci sono sintomi che indicano che qualcosa non funziona più.
- Esempio pratico: Una voce racconta che ha iniziato a sentire un peso ogni lunedì mattina e ha capito che non era solo stanchezza, ma mancanza di senso.
2. Cambiare non significa sempre mollare: può voler dire cercare aria nuova
Il cambiamento può essere interno, laterale, graduale.
- Esempio pratico: Una voce dice che ha chiesto di spostarsi a un altro team invece di cambiare azienda, e ha ritrovato motivazione.
3. Restare troppo a lungo in una situazione logora mina anche l'autostima
Più si resta dove non si sta bene, più si perde fiducia nelle proprie capacità di fare altro.
- Esempio pratico: Una voce racconta che ha iniziato a sentirsi “sbagliata” solo perché non riusciva più ad adattarsi a dinamiche rigide e competitive.
4. Il desiderio di cambiare lavoro non va subito trasformato in azione
A volte è utile esplorare, fare domande, prendere tempo, senza scattare.
- Esempio pratico: Una voce dice che ha dedicato due mesi solo a scrivere cosa cercava davvero, senza inviare CV o prendere decisioni affrettate.
5. La paura di fare un passo nel vuoto è spesso il primo ostacolo
Il timore del dopo può bloccare anche quando il presente è insostenibile.
- Esempio pratico: Una voce racconta che restava in un ambiente tossico perché “meglio questo che niente”, finché ha realizzato che era già una forma di perdita.
6. Anche i momenti di benessere possono essere occasioni per cambiare
Non serve aspettare la crisi per muoversi: si può scegliere anche da uno spazio sereno.
- Esempio pratico: Una voce dice che ha lasciato un lavoro stabile perché sentiva di poter crescere altrove, senza conflitti o urgenze esterne.
7. Cambiare lavoro non è solo cambiare attività, ma anche identità
È un passaggio che coinvolge valori, ruoli, percezione di sé.
- Esempio pratico: Una voce racconta che ha faticato a definirsi dopo il cambiamento, perché il suo valore era sempre stato legato a un titolo preciso.
8. Il cambiamento diventa possibile quando si smette di aspettare l’approvazione degli altri
Spesso si resta fermi per paura del giudizio o del confronto.
- Esempio pratico: Una voce dice che ha deciso di andarsene solo dopo aver smesso di chiedere “cosa ne pensi?” a tutti i colleghi e amici.
DOMANDE GENERATIVE
Le domande che hanno generato un dialogo
Come si capisce che è davvero arrivato il momento di cambiare lavoro?
Ha aperto un confronto tra segnali interni (esaurimento, disinteresse, rabbia) e fattori esterni (cambi di leadership, clima tossico, blocco di crescita).
Il desiderio di cambiare è sempre un segnale negativo?
È emersa una visione alternativa del cambiamento come passaggio fisiologico, segnale di evoluzione e non per forza di fallimento.
Perché ci sentiamo in colpa a voler andare via da un posto “sicuro”?
La discussione ha evidenziato la pressione sociale e familiare sulla stabilità, e la fatica a legittimare desideri di cambiamento che non sono motivati da crisi evidenti.
Cosa ci trattiene dal fare il salto?
Ha generato un confronto su paura, indecisione, identità professionale legata al ruolo attuale e mancanza di alternative chiare.
DOMANDE TRASCURATE
Le domande che erano interessanti ma sono state poco considerate
Esistono segnali oggettivi che indicano che è tempo di andare?
È stata accennata ma non sviluppata: nessuno ha proposto una “checklist” concreta o condiviso criteri chiari per orientarsi nella scelta.
È più facile andarsene da un posto brutto o da uno “quasi buono”?
Domanda stimolante rimasta in sospeso: poteva generare uno scambio sulla trappola della comfort zone mascherata da normalità accettabile.
Il cambiamento deve sempre avere un piano preciso?
È stata posta ma evitata: il gruppo ha evitato lo scambio sull’idea di lasciare anche senza sapere cosa viene dopo.
Qual è il costo di restare troppo a lungo?
Spunto solo accennato: nessuno ha affrontato in modo diretto il logoramento, il rallentamento o la disillusione che si accumulano quando si rimanda troppo.
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